Una forma basica, una storia complessa, pochi metri cubi per raccontare, approfondire, immaginare, ipotizzare spazi e luoghi che una moltitudine di persone, sempre diversa, ha vissuto. E’ su questa dicotomia tra una resa formale di stampo minimalista e la scelta di tematiche storiche che raccontano momenti chiave, per lo più dolorosi o traumatici, della storia dell’Occidente che si sviluppa parte del lavoro di Francesco Arena.
Artista italiano, classe 1978, Arena fa del dato di cronaca un punto di riferimento sul quale innestare la propria riflessione critica, concepito come elemento immutabile in quanto accaduto ma soggetto alla trasformazione che la trasmissione della memoria comporta, l’evento di cronaca perde agli occhi dell’artista i suoi riferimenti tangibili per divenire un concetto puro elaborato da una memoria collettiva. Ciò accade ad esempio nel l’opera Senza titolo (Bologna) del 2011: si presenta come una lastra di marmo quadrata forata al centro come se una granata l’avesse squarciata, in realtà a lacerarla sono stati gli 85 nomi delle vittime della strage della stazione di Bologna dell’agosto del 1980 incisi ripetutamente fino a creare un buco centrale che l’attraversa da parte a parte. Come se la presenza della lapide, simbolo della memoria collettiva, e la costante commemorazione non bastassero a frenare la totale astrazione di quei nomi e la loro cancellazione. Il lavoro di Arena seduce e scuote allo stesso tempo, ad una antitesi di stampo formale, si accosta quella di carattere percettivo. L’artista affonda le mani nel evento storico, lo fa proprio e ne restituisce un una visione più scarna, ma più consistente.
In Genova (foto di gruppo), 2011 Arena compie un passo successivo chiama la coscienza collettiva e quella politica a riflettere su quanto avvenuto e lo fa realizzando una delle sue opere più coinvolgenti. Partendo dalla foto di gruppo ufficiale dei dieci leader presenti al G8 di Genova del 2001 sono state realizzati dieci stampi a base quadrata di cm 40×40 e altezze varie da 0,5 cm a 22 cm, concepite immaginando che se Carlo Giuliani fosse vivo potrebbe salire su di ognuna e guardare negli occhi ogni singolo capo di stato, alla ricerca di una responsabilità o forse soltanto di una risposta.
Per 18.900 metri su ardesia (la strada di Pinelli) del 2009 Arena diviene fisicamente parte integrante del progetto creativo, è lui stesso a ripercorrere il cammino dell’ultimo giorno da uomo libero dell’anarchico Pinelli, dalla stazione a casa e poi al bar e ai circoli anarchici sino in questura. 18.900 metri di strada percorsi come ognuno di noi percorre la propria ogni giorno, senza importanza, che si consuma e svanisce man mano che camminiamo. L’installazione consiste in 322 lastre di ardesia di cm 60x60x1 sulle quali sono incisi i 18.900 metri del cammino di Pinelli.
Il confronto con queste vicende passa attraverso l’essenza stessa dell’artista, sia dal punto di vista di concettuale, sia fisico, divenendo così unità di misura della propria riflessione e dunque del progetto stesso, come avviene nel più recente lavoro, Tube, 2013. Si tratta di un tubo di metallo scatollato di sezione quadrata, tagliato e ricomposto così da diventare un quadrato; il quantitativo di metallo utilizzato è tale che il vuoto all’interno del tubo, riempito di terra di campo, corrisponda in centimetri cubici alla massa corporea dell’artista. Non più dunque l’evento di cronaca come mezzo per riflettere sullo scorrere degli eventi ed il sedimentarsi della memoria, ma il proprio io, la propria presenza al mondo in un dato momento preciso.
L’artista diviene così egli stesso domanda, inizio e fine dell’indagine, il proprio peso, la propria altezza divengono limiti e parametri dei lavori prodotti. E questa centralità e messa in discussione di se stesso pare chiarita e ed espressa apertamente nei lavori Senza titolo (Eliot), 2013 e Senza titolo (Agostino), 2012.
Il primo lavoro consiste in due lastre di marmo marquinia sulle quali è inciso il verso iniziale del quartetto East Coker “In my beginning is my end” che Eliot stesso scelse come proprio epitaffio. Mentre nel secondo lavoro le parole di Sant’Agostino “Io stesso sono diventato domanda” sono impresse su due forme quadrate di ardesia e marmo bianco di Carrara. In questo secondo lavoro la risposta stessa diventa un’altra domanda, anzi una valanga di domande, tante quanti gli sguardi di chi si confronta con l’opera. Arena lascia i fruitoti ad interrogarsi dinanzi le parole di Sant’Agostino, restituendo l’opera alla collettività, seguendo quasi un percorso inverso rispetto a quello compiuto nei lavori prima citati.
Ed è proprio agli occhi di una collettività talvolta distratta che Arena ha presentato negli spazi della galleria Monitor di Roma Riduzione di mare, nel 2013. Un’installazione ed una performance per raccontare il dramma dell’emigrazione. Un blocco di sale del peso di 34 kg è stato progressivamente leccato durante i giorni della mostra da alcuni performer, con l’intento di sovrascrive sul blocco un testo tradotto in codice morse. Il documento compilato dall’organizzazione olandese United for Intercultural Action (European Network Against Nationalism, Racism, Fascism and in Support of Migrants and Refugees) raccoglie l’elenco dei nomi delle 16136 persone morte nel tentativo di emigrare nella sola Europa, di cui i mass media hanno dato notizia dal gennaio 1993 sino al gennaio 2012. Al termine della mostra, il blocco sembrava essere stato eroso, mutato dal movimento umano e dai suoi umori, lacerto di un tempo trascorso e allo stesso tempo ancora in divenire.
Questo interessante gruppo di lavori chiarisce in modo esaustivo le coordinate entro le quali l’artista si sia mosso nella ideazione e realizzazione delle sue opere. Arena riconosce in alcuni episodi di cronaca o in eventi apparentemente del tutto privati e personali, le chiavi di lettura per scardinare la visione ‘ordinaria’ alla quale i mezzi di comunicazione e lo sguardo collettivo alle volte volgono lo sguardo, ponendosi in dialogo con il minimalismo americano e attento a che ogni progetto fondi le sue radici su di un aspetto progettuale che consiste nello scheletro concettuale di ogni installazione o performance.
La forma quadrata che accomuna questa selezione di opere è prediletta dall’artista; pur trattandosi infatti del più elementare tra i poligoni, il quadrato è stato più volte scelto da diversi artisti come espressione ideale della dimensione spaziale delle proprie opere. Si pensi a Josef Albers o a Donald Judd, che hanno omaggiato il quadrato per moltissimi anni.
Le opere di Arena come quelle di Albers, infatti, mostrano una estrema riduzione delle forme in uno stile lapidario e geometrico reso attraverso la perfezione tecnica. Più di altri artisti del Novecento, Albers ha dato forma alle parole del filosofo Ludwig Wittgenstein, il quale diceva che ogni cosa che noi vediamo può essere differente e ogni cosa che noi descriviamo può essere differente allo stesso tempo, dimostrando che talvolta le cose più elementari sono le più inspiegabili. Come le opere di Albers, anche le installazioni di Arena posso rivelarsi delle trappole nelle quali lo spettatore rischia ripetutamente di cadere, a causa del senso di insicurezza che la percezione dell’opera trasmette.
Allo stesso tempo la ricerca di Arena si concretizza formalmente in lavori tridimensionali, che in comune con i lavori di Judd hanno l’esperienza dello spazio quale elemento portante dell’opera, le installazioni apparentemente autonome, non possono essere percepite senza considerare il rapporto con lo spazio che occupano e influenzano. La resa formale, invece, seppur si concretizzi un’arte astratta e geometrica, dalla fredda eleganza, si distacca concettualmente, come visto, dalla ricerca di Judd, da cui sembrava essere stata bandita qualsiasi forma di soggettività.
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