Art & Adv – Annie Leibovitz per Vogue

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È ormai risaputo che la fotografia pubblicitaria di moda attinge spesso da quell’inesauribile thesaurus costituito dalle opere d’arte di tutti i tempi. Sorprendentemente numerosi, infatti, sono gli esempi di appropriazione, manipolazione e ricontestualizzazione di opere artistiche che a volte si nascondono in sottili allusioni percepibili solo da un pubblico più attento, altre invece sono molto più evidenti e l’intera immagine è lo schietto pastiche di un dipinto famoso. La tradizione dei “Tableaux vivants”, dunque – vere e proprie rappresentazioni sceniche costituite da uno o più personaggi che riproducono gli atteggiamenti, le pose, le situazioni e a volte anche le ambientazioni di famosi capolavori, per lo più dipinti – dalla fotografia pittorica di fine Ottocento, passando per Luigi Ontani e Bill Viola, arriva fino ai giorni nostri tra le pagine di una rivista, considerata la “Bibbia della moda”.

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Si tratta del numero di Dicembre dell’edizione americana di Vogue, per cui la fotografa Annie Leibovitz e la stylist Grace Coddington hanno realizzato un particolare servizio nel quale la modella, l’attrice Jessica Chastain, veste i panni delle protagoniste di ben otto opere d’arte.
Dalla bravura della fotografa nel ricostruire le composizioni, studiandone linee, colori e luci, unita alla sensibilità della stylist che ha scovato gli abiti di alta moda più adatti, ne risulta una serie di scatti degni di competere con il fascino delle opere originarie. La selezione di dipinti, magnificamente reinterpretati in chiave Vogue, è eccezionale e alterna lavori più conosciuti ad altri meno noti al grande pubblico.

L’attrice candidata all’Oscar, compare in tutto il suo splendore e, indossando abiti di alta moda, riesce a calarsi perfettamente nelle atmosfere di questi bellissimi pezzi d’arte: la sua pelle diafana e i suoi capelli rosso fuoco le donano un aspetto delicato che sembra ricordare quello di una musa preraffaellita. E infatti, esordisce sulla copertina proprio con un dipinto che viene da molti considerato, per forma, colori e iconografia, l’emblema di tale movimento: Flaming June (1894-95) di Frederic Leighton, uno dei capolavori più conosciuti della tarda età vittoriana. Trucco minimal e labbra che disegnano un sorriso sottile restituiscono tutta l’eterea naturalezza della musa originaria adagiata su un drappo rosso, al contempo perfettamente moderna nel suggestivo abito giallo calendula dello stilista Olivier Theyskens.

02_jessica-chastain-by-annie-leibovitz-for-vogue-us-december-2013Nella pagina di apertura dell’articolo, dominano ancora una volta i colori caldi, modulazioni tonali dei capelli della modella distesa in una stanza dall’ornamentazione orientale, su un basso materasso, assorta in se stessa, con le braccia alzate e abbandonate al di sopra del capo. Anche se inquadrata da una differente prospettiva, l’ambientazione, la posa lasciva e sognatrice, ricalcano quella dell’Odalisca con culotte rossa (1869-1954) di Henri Matisse. Anche l’abito, firmato Marc Jacobs, è simile a quei pantaloni “alla turca” che danno il titolo al quadro.

Tutt’altra atmosfera, invece, nello scatto successivo in cui la gamma di colori va dall’azzurro cielo del muro di sfondo all’intenso blu ceruleo dell’abito di Alexander Wang, passando per il verde acqua brillante degli occhi della giovane attrice, penetranti quanto quelli della signora nel quadro Le Retour de la Mer (1924)
di Félix Vallotton.

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In una veste grigia di Oscar de la Renta, Jessica si cala nell’interpretazione della moglie del presidente americano Grover Cleveland, ritratta da Anders Zorn nel 1899. L’autorevole bellezza, il candore marmoreo della scena, le scanalature sul fondo, ci riportano ancora più indietro: una statua di un tempio greco.

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In un’altra immagine sensazionale, l’attrice interpreta il ruolo di Ria Munk, ritratta a posteriori dopo la sua tragica morte, da Gustav Klimt tra il 1917 e il 1918. È uno dei più bei ritratti di donna del geniale pittore austriaco, nonché una delle sue ultime opere. Lo scatto della Leibovitz raccoglie tutto il fascino della tecnica, dell’iconografia e dello stile di Klimt, che continua ad essere la fonte di ispirazione prediletta per i fashion designer e non solo (si veda la fotosessione realizzata da Steven Meisel per il numero di dicembre 2007 di Vogue Italia chiamato “Vogue Patterns”). L’abito di chiffon di Vera Wang, decorato a mano, riproduce perfettamente il non-finito del dipinto (il vestito e il pavimento sono appena tracciati a carboncino); lo sfondo estremamente ricco di motivi floreali prende vita in un vero giardino fiorito.

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Attraverso un sapiente gioco di colori e luci la fotografa riesce anche a riprodurre le pennellate confuse di Vincent Van Gogh. Nel 1888 l’artista olandese ritrae una giovane donna di Arles, a cui attribuisce il nome di Mousmé, come la ragazza giapponese del racconto di Pierre Loti da cui rimase particolarmente affascinato. Riflessa orizzontalmente rispetto al dipinto, la fotografia è comunque impostata in modo tradizionale, con la modella in posa contro uno sfondo monocromo. L’abbigliamento, firmato Alexander McQueen, riproduce lo stesso e identico gioco decorativo della lunga fila di bottoni rossi della giubba a righe verticali, che si perde nella nuvola dei grandi pois della gonna.

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L’unica foto in cui la modella non indossa alcun abito è paradossalmente quella ispirata al dipinto di Magritte intitolato La Robe de soirée, ossia L’abito da sera (1955). Sappiamo che i titoli di Magritte sono sempre fuorvianti, e anzi apparentemente lontanissimi dal soggetto proposto. Enigmatico resta nella sua incomprensibilità anche lo scatto: i capelli rossi si stagliano su uno sfondo occupato da una distesa azzurra, tra un cielo turchese e un mare placido; la luna, che accoglie da sempre un valore notturno nell’associazione libera dei significati, è l’ignoto, il mistero.

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L’ultimo scatto è ispirato alle fotografie di Julia Margaret Cameron, la quale realizzò intensi e profondi ritratti attenendosi al linguaggio stilistico dei pittori preraffaelliti. La Leibovitz ne riproduce la caratteristica distintiva: quell’uso del fuoco, spinto a volte addirittura “fuori fuoco”, incurante della nitidezza e volto invece alla ricerca d’effetti plastici memori forse dello sfumato leonardesco.

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“Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma”, dunque, è la una legge della fisica che possiamo applicare anche alla storia dell’arte, all’evoluzione della cultura figurativa, all’insieme di icone che costituiscono l’immaginario visivo comune.

Credits: www.vogue.com

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