Dario Puggioni è nato a Seria Brunei in Borneo (Indonesia) nel 1977. Dopo essersi laureato all’Accademia di Belle Arti di Roma, oggi vive e lavora a Berlino.
A marzo di quest’anno la White Noise Gallery di Roma ha inaugurato la sua prima personale italiana dal titolo Il fallimento dell’udito, a cura di Eleonora Aloise e Carlo Maria Lolli Ghetti.
Per questa mostra Puggioni ha realizzato dipinti ad olio di piccole, medie e grandi dimensioni. Le opere ritraggono figure umane nell’atto di una trasformazione che ne stravolge la fisionomia con innesti arborei, come se il silenzioso e inevitabile compiersi di un percorso evolutivo si fosse impossessato dei loro corpi. La project room della galleria ha invece ospitato quattro installazioni che hanno trasformato lo spazio sperimentale della galleria in un giardino sospeso nel tempo e nello spazio, dove però è possibile ritrovare il suono.
PL: I lavori realizzati per la mostra “Il fallimento dell’udito” sono per metà dipinti ad olio su carta. Di solito non mi soffermo mai troppo sulla materia che un artista sceglie per esprimersi, ma in questo caso la tua scelta mi sembra ben precisa: la pittura ad olio è una tecnica che porta alle origini della grande arte italiana, è un mezzo con una forte connotazione e indubbiamente meno usato oggi che in passato, perché hai scelto questo tipo di pittura?
DP: Non credo ad oggi si possa ancora parlare di linguaggi o materiali contemporanei e altri meno contemporanei, dipende che cosa se ne fa del linguaggio o del materiale scelto. E la scelta del linguaggio piuttosto che del materiale deve cercare di essere a favore dell’artista, imparando prima a gestirlo e dopo, in qualche modo dimenticarlo a favore della spontaneità.
PL: Sicuramente il movimento artistico che negli ultimi 10 anni ha avuto maggiore successo è la street art. Il che se da un lato ha determinato un grande ritorno alla pittura muraria, dall’altro ha portato ad una forte trasformazione dei contenuti e delle motivazioni che spingono gli artisti ad afferire a questo movimento, mi riferisco soprattutto al rapporto con la strada e alla figura stesso dello street artist: molti giovani artisti che scelgo la strada come luogo di espressione sembrano infatti più vicini a chi fa pittura che ‘essere’ degli street artist, come se temessero di scegliere la pittura quale tecnica di elaborazione critica del proprio pensiero. Per un artista di circa trent’anni cosa significa fare pittura oggi e come sei giunto a fare della pittura il tuo principale tratto espressivo?
DP: Imbianchino, Street Artist, laccatore o pittore che sia, di fatto tutte queste figure compiono lo stesso atto: dipingono. Come dicevo, credo che sia nel “come usi” del linguaggio scelto che fa la differenza. La pittura ad olio può essere contemporanea quanto lo spray dello street artist. Dipende cosa si va ad indagare e scoprire e se quel mezzo sia quello più adatto alle esigenze dell’artista stesso. Ho potuto notare spesso degli artisti non padroni del mezzo scelto solo perché spesso ci si innamora più dell’idea che del vero potenziale che qualsiasi materiale o linguaggio è capace di scaturire attraverso le abilità dell’artista.
Nel mio caso il passaggio alla pittura è stata una conseguenza. Dopo molti anni passati a disegnare ho sentito la necessità di approfondire in maniera più capillare la mia visione delle cose attraverso la pittura e avendo ancora molto da indagare deduco che per ora continui a rimanere questo il mio mezzo. Anche se ultimamente mi sto timidamente affacciando alla scultura verso la quale nutro da tempo una forte attrazione.
PL: La secondo parte delle opere esposte alla White Noise Gallery di Roma erano sculture, e sculture sonore. Le installazioni sonore sembrano essere una sorta di essenza dell’intera mostra, quella parte che è contenuta nelle opere pittoriche, percepita ma non visibile. Perché hai scelto di unire queste due dimensioni? E quale compensazione di equilibri hai cercato di creare in questo modo?
DP: Esattamente! Quello era il mio intento. Cercare di liberare quelle forme che mi abitano dal sonno bidimensionale delle tele. La Project Room è stata montata in maniera del tutto spontanea senza troppi progetti proprio per cercare di mantenere una sorta di “istintività pittorica” nel momento dell’allestimento. Per gli effetti sonori ho chiesto la collaborazione del musicista Alex Adilardi d’Aquino che ha creato gli effetti di disequilibrio sonoro. Con il suo aiuto siamo riusciti a creare le sonorità giuste ai fini di una più fluida fruizione del lavoro. Chi avrà associato la musica con la project room e i quadri avrà sicuramente colto in maniera più profonda l’indagine della mostra.
PL: Il tuo lavoro parla di trasformazione in mancanza dell’udito e quindi di equilibrio. È una metamorfosi questa che senti di aver vissuto o di stare vivendo tu stesso in prima persona?
DP: Siamo in continuo cambiamento eppure non ce ne accorgiamo. Ciò che siamo è frutto di una lenta e silenziosa ma inesorabile trasformazione alla quale nessuno può sottrarsi. E Spesso ce ne accorgiamo solo quando la crisalide è ormai aperta e non resta altro che guardare cosa rimane dietro di noi. Con la pittura cerco nuove forme attraverso l’immagine del corpo dato che è esso stesso che me lo suggerisce. Di fatto non posso dire di avere mai veramente potuto compiere delle scelte nella mia vita, e la pittura non è una cosa che ho scelto. Se mai è una conseguenza.
PL: A cosa stai lavorando adesso? Quali sono i tuoi progetti futuri?
DP: In questi giorni sto preparando del nuovi lavori che esporrò il prossimo 30 Aprile all’interno di una chiesa in zona “Mitte” durante l’evento “I Amsterdam – You Berlin”, qui a Berlino. Per il futuro vorrei approfondire ancora il potenziale scultoreo da poco espresso e non smettere, ma anzi aumentare ancora di più l’indagine attraverso il mistero bidimensionale della pittura.
PL: Sei italiano, ma vivi a Berlino, come vedi da li l’Italia e il sistema dell’arte contemporanea?
DP: Il sistema Italiano è un sistema. Esattamente come quello che hanno in Germania. Non credo esista veramente un sistema migliore di un altro, forse ne esiste uno nel quale trovarci più comodi e gli artisti da sempre non seguono i sistemi per motivi piuttosto evidenti. Credo che di fronte a un buon artista non esista sistema che tenga. Forse è molto più semplice di quel che si crede…
PL: In cosa ti senti ancora ‘almost’?
DP: In molte cose.
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