In occasione della mostra personale NOMADIC EXPERIMENT – on the brink of disaster, presso la galleria Wunderkammern di Roma, abbiamo avuto l’occasione di intervistare l’artista milanese 2501. Jacopo Ceccarelli aka 2501 (Milano, 1981) è tra i più importanti artisti italiani nella scena attuale dell’Urban Art. L’artista – che ha partecipato a numerose mostre e festival in tutto il mondo – ha scelto di fissare la tappa conclusiva della trilogia di mostre pensate per il progetto NOMADIC EXPERIMENT, a Roma (dopo Miami e Los Angeles), dove oltre alle opere in galleria (dipinti su legno, tela e carta, installazioni in ceramica, fotografie, due video e un’installazione meccanica con la quale gli spettatori possono interagire rendendosi partecipi della narrazione artistica) ha realizzato un grande intervento murale nel quartiere di Tor Pignattara (Roma). La riflessione dell’artista per questo progetto parte dalla condizione che caratterizza la nostra contemporaneità, continuamente “on the brink of disaster” (sull’orlo del precipizio) poiché scandita da tempi rapidi, frenetici, sfuggevoli, i quali costringono ad un mutamento costante del nostro modo di vivere. NOMADIC EXPERIMENT – on the brink of disaster è la mostra conclusiva di Limitless, il progetto artistico per l’anno 2014-2015 di Wunderkammern.
Quale è stato il tuo percorso di formazione?
Io vengo dai graffiti. Ho iniziato verso i 15 anni a dipingere graffiti classici (lettere) e sono andato avanti più o meno fino al 2000. In quell’anno, subito dopo il liceo, mi sono trasferito a San Paolo in Brasile: ho avuto la fortuna di trovare lavoro e vi sono rimasto quasi due anni. In quel momento, la mia visione di quello che erano gli interventi urbani, sia legali che illegali (a quell’epoca non pensavo né sarebbe diventato un lavoro, né che sarebbe stata una parte così importante della mia vita) è cambiata completamente. In quel periodo, grossi nomi brasiliani, come OsGemeos, non erano ancora così conosciuti e, non essendoci un uso massiccio del web, era quasi impossibile vedere le foto dei loro interventi, quindi per me essere arrivato a vedere dal vivo l’opera di artisti che già si rapportavano alla superficie urbana in una maniera totalmente diversa, non più con lettere ma con personaggi, sfondi, concependo il muro in una maniera differente, sicuramente mi ha aperto tutta una serie di possibilità e cambiato la mia visione su cosa significa dipingere per strada. Dopodiché sono tornato in Italia – dove ho frequentato la scuola del cinema – e ho abbandonato la mia prima tag (Never) per iniziare a dipingere come Robot Inc. Robot Inc era un progetto sempre legato a dipingere illegalmente in strada utilizzando caracters che mi rappresentavano. Ho poi sentito la necessità di distaccarmi da tutto quello che avevo fatto prima ed è nato il progetto 2501, che sto portando avanti ancora adesso, e che è sicuramente il più maturo.
Quindi cambiare tag è stato per te un modo per cambiare le fasi del tuo lavoro, ovvero cambia la firma e cambia la fase di ricerca?
Sicuamente sì, per me è stato assolutamente così: sono stati degli stadi. Ad un certo punto ho sentito che quello che stavo facendo mi stava stretto, non mi bastava più e ho deciso di ripartire, di fare tabula rasa per costruire qualcosa di nuovo.
Come è stato formarsi quindici anni fa a Milano?
L’Italia è sempre stata patria di gran vandalismo, siamo sempre stati considerati un luogo ameno per realizzare interventi sui treni o in strada, rispetto ad esempio alla Germania e alla Francia. Ho avuto la fortuna di vedere l’evoluzione sin dall’inizio di questa cosa che tutti chiamano ‘street art’. Ci sono sempre stato, ho partecipato alle prime mostre italiane, come Arte impropria (2003) o The Urban Edge Show (2005), quindi sono un testimone oculare di tutta questa avventura e ovviamente riconosco che ci sono stati diversi cicli, up e down, gran moda…
Milano sicuramente nei primi anni 2000 è stata la protagonista indiscussa e a mio parere non sono più state fatte mostre come quelle organizzate in quel periodo, anche perché ad esempio quando ho partecipato ad The Urban Edge Show, in Italia sono venuti Doze Green, Blu, David Ellis, Kami+Sasu, tutte super star che oggi sono presenti nei musei in America o in Giappone. Quindi è stato un po’ un momento d’oro, anche perché tutti gli artisti non erano ancora così proiettati verso una dinamica professionale-lavorativa, quindi c’era più spazio per lavorare in strada e sperimentare. Dopo è tutto un po’ scemato e adesso a Milano succede poco e niente, si è tutto spostato nei comuni, i quali hanno ormai capito che il muralismo è la gallina dalle uova d’oro grazie alla quale è possibile rifare le città con due soldi. Io credo che la qualità sia un po’ scesa: vedo tantissimi lavori, una velocizzazione nel creare e consumare i lavori, un overload di festival e di artisti non così significativi, che però vengono incentivati continuamente a fare interventi. Poi ti dico, un artista per me fa sempre bene a fare un intervento, io non vedo una grossa colpa degli artisti, perché sono persone che portano avanti il loro progetto, bello o brutto, interessante o meno che sia, il problema piuttosto riguarda chi questi progetti li cura, ci troviamo spesso davanti ad una serie di curatori improvvisati. Il problema, inoltre, sta anche nel fatto che la street art ha molte sfaccettature. Dopo quindici anni e il succedersi di tre generazioni che dai graffiti sono passate ai post graffiti, ovviamente la necessità di vedere dei lavori evoluti è sempre maggiore. Trovo che l’intervento in strada è democratico ed è giusto che lo possa fare chiunque in qualsia maniera, da lì a dire che tutte le ricerche hanno lo stesso peso e lo stesso interesse il passo non è così breve.
Qual è la tua definizione di ‘street art’ e come vivi il suo aspetto illegale, anche in relazione al fatto che tra qualche giorno inauguri una mostra in galleria?
Io diciamo che sono un persona dalle varie sfaccettature, per me ogni cosa è diversa, ciò che faccio si divide in tre cose: una sono i graffiti, lettere, tag, sono illegali, sono la forma più pura e interessante ed ciò che da valore al tutto. Io credo che il valore della ricerca di tutti coloro che fanno interventi urbani non è tanto in cosa disegnano ma nell’attitudine che portano nell’arte contemporanea. Poi c’è quella che tutti chiamano ‘street art’ che si stacca dai graffiti ma entra nel tessuto urbano in maniera illegale. E poi c’è il nuovo muralismo che riguarda tutto quello che facciamo – io compreso – nel momento in cui abbiamo un lift, dei permessi, per realizzare un intervento pubblico.
In questo momento sto inaugurando una personale in una galleria perché come artista ed essere umano ho vissuto tutta una serie di esperienze che mi hanno portato anche ad esibire in galleria. Questo non significa che io non utilizzi la strada a mio piacere con interventi illegali ancora oggi, magari non è una cosa che faccio con la frequenza di prima, ma comunque è una parte ancora ben viva e presente del mio lavoro. Non certo per un’esigenza di adrenalina o di fare qualcosa che sia proibito, ma proprio per iniettare una sorta i vitalità nel mio lavoro.
A me non danno fastidio le scritte in città, qualsiasi tipo di scritta non parlo solo tag. Le città, ad esclusione dei monumenti e palazzi storici, sono sistemi caotici dove veniamo sottoposti tutti i giorni ad un bombardamento di immagini, penso ad esempio ai cartelloni pubblicitari. Così come tutte queste persone non chiedono a me il permesso di mettermi una pubblicità fuori casa io cittadino mi arrogo il diritto di prendermi il mio spazio vitale, quindi di cambiare la città anche a mia immagine e somiglianza nel mio piccolo. Ecco, questo discorso di appropriazione delle superfici architettoniche e delle nostre stesse vite, ribellandosi all’idea di essere soggetti passivi, credo che sia una parte importantissima del lavoro.
Qual è il tuo rapporto con il pubblico quando ti trovi a lavorare in uno spazio pubblico?
Il rapporto con il pubblico cambia di volta in volta in base alle situazioni. Amo raccontare cose succede dietro il lavoro e spesso sono le persone che ti circondano a darti una visione più chiara di quello che stai facendo. Quindi io credo che in questo caso il pubblico sia basilare, anche come fonte di ispirazione. Non dimentichiamoci che il muralismo è una pratica outdoor quindi è influenzato da tutta una serie di cose (agenti atmosferici, architetture, etc) e penso che stia alla bravura e alla sensibilità di ogni artista entrare nel tessuto urbano senza creare degli squilibri nel momento in cui si fa un intervento pubblico, bisogno scomparire accentuando il tessuto urbano andando a creare una tensione positiva.
Hai più volte parlato di architettura, tu come descriveresti il tuo stile e quale linguaggio vorresti portare avanti con la tua arte? E’ esatto affermare che nel tuo lavoro, negli ultimi anni, stai prestando maggiore attenzione all’architettura che ti circonda e sulla quale intervieni?
E’ sicuramente così. Negli ultimi anni ho iniziato a lavorare con l’astratto. Ho scelto di concentrarmi sull’astratto perché mi sono reso conto che i concetti su cui vorrei lavorare sono molto più vicini all’astratto che al figurativo. Il mio lavoro parla di processo, dello scorrere del tempo, di come tutta una serie di casualità condiziona tutto ciò che ci circonda e parla sicuramente della trasformazione. Quello che mi piace pensare è che lo stile che uso è proprio la trasposizione grafica di quello che per me vuol dire flusso e trasformazione, perciò risulta sempre cinetico: tramite le linee lascia una mappatura del tempo passato a fare quel determinato intervento. Ed è per questo che la necessità di mettere il lavoro in relazione con l’architettura si è fatta centrale.
Cosa rappresenta per il muro?
Secondo me è una superficie finita, però allo stesso tempo più infinita rispetto ad una tela o ad un oggetto fatto in galleria, non tanto per la sua dimensione, ma quanto per tutto l’immaginario che è legato al concetto di nuovo muralismo. Credo che grazie al muro si abbia la possibilità di muoversi nello spazio-tempo più agevolmente che su di una tela.
Qual è la tua città preferita da dipingere?
Non ho una città preferita, andrò a dipingere a Chicago quest’estate dove sono già stato, andrò a dipingere un muro molto grosso quindi diciamo che in questo momento è una location dove sono contento di andare a fare questo intervento.
Cosa rappresenta per te questa tappa romana?
E’ una tappa molto importante perché Roma è stato il luogo di inizio e fine di questa trilogia di mostre. NOMADIC EXPERIMENT è un sito online da due anni (rimarrà in aggiornamento per 10 anni esatti), è un progetto on going molto importante per me e questa trilogia di mostre che è l’unica che faro con il titolo NOMADIC EXPERIMENT.
Cos’è per te il limite?
La mia idea di limite è collegata alla staticità secondo me nel momento in cui uno si blocca inevitabilmente si blocca anche il mondo intorno a lui, perché credo che quello che ci succede è dettato dalle nostre azioni, quindi limitless vuol dire proprio cercare di non fermarsi, il che non vuol dire muoversi compulsivamente, ma spostare l’asticella sempre un po’ più lontano. E credo anche che sia il compito che gli artisti hanno, ovvero spostare il confine dell’immaginabile, per la qual cosa bisogna assolutamente sentirsi un po’ senza limiti.
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